Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla compatibilità della nuova disciplina della non punibilità per particolare tenuità del fatto con l’art. 186, comma 2, lett. b) e c) e, più in generale, con tutti i reati in cui il legislatore ha individuato una soglia di punibilità, hanno dato risposta affermativa al quesito, svolgendo altresì un’ampia disamina del novello istituto.

Quest’ultimo è stato introdotto dal d.lgs. 28/2015 con funzione deflattiva, al fine di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non presentano bisogno imperioso di pena. La politica legislativa muove dall’idea che, per particolari reati le cui modalità di commissione non evidenziano un possibile “ritorno” al reato, la pena detentiva sortisce un effetto contrario alla rieducazione, potendo il contatto con il mondo carcerario far nascere ulteriori propostiti criminosi anziché azzerarli.

La Corte riunita nel supremo consesso conferma tale visione, sottolineando che l’art. 131 bis c.p. costituisce espressione del principio di necessità, secondo il quale la pena deve rappresentare l’extrema ratio da applicare solo quando altre sanzioni nell’ordinamento non siano in grado di ripristinare l’ordine razionale leso dalla condotta illecita. Essa, oltre a richiedere il bisogno e la meritevolezza, deve essere anche proporzionata al fatto commesso, ossia deve concretarsi nella compressione minore della libertà per raggiungere il fine rieducativo.

Si muove, quindi, dal presupposto che il reato sia stato commesso e, tuttavia, per le concrete modalità del fatto, non si ritiene di dover condannare.
Questo aspetto distingue il principio di necessità da quello di offensività che attiene al fatto tipico e non a quello concreto.

Venendo all’esclusione della punibilità, il giudice deve verificare che sussistano tutti i requisiti previsti dalla norma. In primo luogo la norma non ha portata illimitata, essendo ristretta ai reati il cui massimo edittale non superi i  cinque anni, anche in aggiunta a pene pecuniarie. In secondo luogo, la valutazione deve soffermarsi sulle modalità concrete della condotta e sull’esiguità del danno o del pericolo. Queste vanno valutate alla stregua dell’art. 133 c.p., norma di particolare importanza che, in ipotesi di condanna, guida il giudice nella determinazione della pena, mentre in questa sede è utilizzata per l’esatto contrario, cioè escludere la punibilità quando le circostanze concrete suggeriscono l’esclusione della pena. Da ultimo, i reati non devono essere abituali.

La norma, pertanto, pone l’accento sul fatto concreto come accaduto e non sul fatto tipico.

Per la Suprema Corte le modalità concrete di realizzazione possono escludere il disvalore astratto disposto dal legislatore in ogni tipologia di reato.
Applicando questo schema ai reati di pericolo, ne discende che anche per quelli astratti o presunti è ammessa la valutazione concreta del giudice e, quindi, la compatibilità con l’art. 131 bis.

In relazione ai reati in cui è prevista una soglia di punibilità, le remore della giurisprudenza attenevano al fatto che se il legislatore prevede una soglia minima in una fattispecie di forte anticipazione di tutela, allora ciò implica che tutto ciò che è sopra soglia è penalmente rilevante e tutto ciò che sta sotto, no. Se il giudice esclude la punibilità in un caso in cui la soglia è superata, allora egli si sostituirebbe al legislatore. La Cassazione, tuttavia, esclude questo rilievo nei casi in cui, nonostante il superamento della soglia di rilevanza penale, il discostamento dal limite sia lieve e le concrete modalità attuative della condotta lascino presagire l’inconvenienza della condanna.

Il giudice, quindi, non si sostituisce al legislatore, ma recepisce fedelmente la sua valutazione.

I reati di pericolo presunto, invece, sono quelle fattispecie in cui il legislatore  prevede come pericolosa una situazione, senza lasciare margine di accertamento all’interprete, il quale deve, pertanto, limitarsi ad accertare il fatto ex se offensivo. Anche in tali ipotesi, tuttavia, resta spazio per valutare quale sia il concreto impatto pregiudizievole della condotta rispetto al bene tutelato.

Ne consegue che, ricorrendone i presupposti, il giudice applicherà l’art. 131 bis per tutti i reati per cui l’applicabilità non sia esplicitamente esclusa.