corte costituzionale

Nel campo dei diritti della personalità, il nostro ordinamento ha subito numerosi influssi comunitari che hanno comportato l’adeguamento del nostro impianto normativo a quello europeo.

Di recente, anche nel dibattito politico-mediatico, la tematica del riconoscimento di maggiori diritti alle coppie omosessuali è sotto la luce dei riflettori. Ciò è sicuramente in parte dovuto al fatto che l’Italia è uno dei pochi paesi europei che, di fatto, ha ignorato la crescente necessità sociale di affrontare sotto il profilo normativo la fattispecie delle unioni omosessuali o, per utilizzare una terminologia più appropriata, le unioni omoaffettive.

In Europa le unioni omoaffettive sono state regolamentate in modi diversi, in estrema sintesi – senza alcuna pretesa di completezza – si può affermare che in alcuni paesi è stata prevista la possibilità per tali coppie di contrarre un regolare matrimonio mentre in altri, invece, è stata data la possibilità di ricorrere a delle unioni registrate.

Come accennato in precedenza, il nostro ordinamento si caratterizza per una totale lacuna normativa dedicata alla predetta fattispecie, sebbene non siano mancate delle pronunce giurisprudenziali in materia.

Recentemente, la Corte Costituzionale ha compiuto un ulteriore passo verso l’introduzione di una disciplina in materia.

Nella sentenza n. 170 del 2014, infatti, la Corte ha sancito ”l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore “.

Il caso di specie verteva sugli “effetti della pronuncia di rettificazione di sesso su un matrimonio preesistente, regolarmente contratto dal soggetto che ha inteso esercitare il diritto a cambiare identità di genere in corso di vincolo, nell’ipotesi in cui né il medesimo soggetto né il coniuge abbiano intenzione di sciogliere il rapporto coniugale”. Trattasi cioè del c.d. “divorzio imposto”, scaturito dall’applicazione dell’art. 4 della legge n. 164 del 1982 [Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso], nella parte in cui dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca l’automatica cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso senza la necessità di una domanda e di una pronuncia giudiziale.

Secondo il giudice a quo tale disciplina comporterebbe una lesione ingiustificata, in assenza di compensazione,del diritto di autodeterminarsi nelle scelte relative all’identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; del diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale; del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio; del diritto dell’altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale”.

La pronuncia in esame si pone apertamente in continuità con la celebre sentenza n. 138 del 2010 della stessa Corte, ribadendo e specificando meglio alcuni passaggi della stessa.

In modo particolare, è opportuno evidenziare la seguente premessa della Corte Costituzionale, dove vengono definite le peculiarità della fattispecie oggetto di analisi che ad avviso della Corte “si pone, evidentemente, fuori dal modello del matrimonio – che, con il venir meno del requisito, per il nostro ordinamento essenziale, della eterosessualità, non può proseguire come tale – ma non è neppure semplicisticamente equiparabile ad una unione di soggetti dello stesso sesso, poiché ciò equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale, che, seppur non più declinabili all’interno del modello matrimoniale, non sono, per ciò solo, tutti necessariamente sacrificabili“.

In tale modo è stata esclusa la violazione dell’art. 29 della Costituzione in quanto la Corte ribadisce che la definizione di matrimonio è quella riconducibile al nostro Codice Civile che – secondo i giudici – prevede esclusivamente il modello eterosessuale di matrimonio.

La Corte ritiene invece fondata la violazione dell’art. 2 della Costituzione e a tal proposito, come già anticipato, richiama espressamente il proprio precedente della sentenza n. 138 del 2010 dove la stessa Corte aveva sancito che tra le formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost., “è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” e che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”. Ciò non di meno, rimane comunque «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni”.

Ciò detto, la Corte costituzionale ha escluso la possibilità per la stessa di intervenire sulla materia con una sentenza c.d. manipolativa, che avrebbe modificato la disciplina sopra esposta prevedendo esclusivamente la cessazione degli effetti del matrimonio legata alla richiesta di uno dei coniugi; tale soluzione, infatti, si porrebbe in contrasto con la lettura precedentemente descrita dell’art. 29 della Costituzione operata dalla Corte.

Pertanto, la Corte Costituzionale ha ritenuto che l’unica soluzione possibile fosse quella di intervenire con una sentenza c.d. additiva di principio, con la quale si è rivolta al legislatore auspicando in tempi brevi – testualmente “con la massima sollecitudine”- un intervento normativo che permetta il mantenimento di un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima.