Consultando il sito internet della CGIL, sempre interessante per qualunque avvocato che si occupi di diritto del lavoro, abbiamo recuperato un imporante scritto di alcuni mesi addietro, che approfondisce il tema del trattamento retributivo dei soci di cooperativa, con particolare riferimento ai casi i cui un contratto collettivo, firmato ca organizzazioni sindacali non maggiormente rappresentative sul piano nazionale, preveda dei trattamenti retributivi inferiori a quelli previsti cal CCNL di categoria sottoscritto invece dalle organizzazioni maggiormente rappresentative.
Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale.
Riportiamo quindi la nota emessa dalla CGIL
“E’ costituzionalmente legittimo prevedere per legge che i minimi di trattamento economico per i soci di cooperativa non siano inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria (art. 7, c. 4, del dl 31 dicembre 2007, n. 248, conv. dall’art. 1, c. 1, l. 28 febbraio 2008, n. 31). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 51/2015, ha quindi respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lucca per violazione dell’articolo 39 della Costituzione
E’ costituzionalmente legittimo prevedere per legge (art. 7, c. 4, del dl 31 dicembre 2007, n. 248, conv. dall’art. 1, c. 1, l. 28 febbraio 2008, n. 31) che i trattamenti economici complessivi per i soci di cooperativa non siano inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria.
In concreto si discuteva se applicare il CCNL di settore stipulato da CGIL-CISL-UIL (e controparti datoriali) – cioè quello “comparativamente più rappresentativo” – oppure, come sostenuto dal Tribunale di Lucca e dalla società cooperativa ricorrente, il CCNL multi servizi, stipulato da UNCI–FESICA-CONFSAL.
A parere del giudice toscano – che ha sollevato la questione – la norma in esame, imponendo al giudice, in presenza di una pluralità di contratti collettivi di settore, di applicare un trattamento retributivo non inferiore a quello previsto da alcuni di tali contratti senza una previa valutazione (ex art. 36 Cost.) del diverso contratto collettivo applicato per affiliazione sindacale dall’impresa, inciderebbe autoritativamente sul dinamismo, anche conflittuale, della concorrenza intersindacale, realizzando un’indebita estensione dell’efficacia collettiva dei contratti collettivi (sia pure limitatamente alla sola parte economica), in violazione dell’art. 39 Cost.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 51/2015 (Red. Silvana Sciarra), ha rigettato tale ricostruzione stabilendo che non viola l’art. 39 della Costituzione la norma di legge che assicura ai soci lavoratori di cooperative la salvaguardia del trattamento economico complessivo minimo previsto dal contratto collettivo stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi della categoria.
C’è da tener presente, per avere un quadro compiuto, che la norma impugnata dal Trib. di Lucca è stata adottata all’indomani del Protocollo d’intesa, sottoscritto il 10 ottobre 2007 da Ministero del lavoro, Ministero dello sviluppo economico, AGCI, Confcooperative, Legacoop, CGIL, CISL, UIL, in cui il Governo assumeva l’impegno di avviare «ogni idonea iniziativa amministrativa affinché le cooperative adottino trattamenti economici complessivi del lavoro subordinato, previsti dall’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, non inferiori a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro sottoscritto dalle associazioni del movimento cooperativo e dalle organizzazioni sindacali per ciascuna parte sociale comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nel settore di riferimento» (punto C).
L’obiettivo, condiviso dai firmatari del Protocollo era, evidentemente, quello di contestare l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali di non accertata rappresentatività, che prevedessero trattamenti retributivi potenzialmente in contrasto con la nozione di retribuzione sufficiente, di cui all’art. 36 Cost.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 51/2015, esclude quindi la lesione della libertà sindacale in base all’interpretazione corretta della norma censurata, la quale non impone di applicare a tutti gli appartenenti alla categoria un determinato contratto collettivo nella sua interezza, ma si limita ad estendere loro la garanzia di minimi retributivi individuati da una fonte (il C.C.N.L. stipulato dalle OO.SS. maggiormente rappresentative) generalmente ritenuta quella maggiormente idonea ad assicurare la proporzionalità e sufficienza della retribuzione garantite dall’art. 36 Cost..
In definitiva, per dirla con le efficaci parole di chiusura della motivazione, “nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative”.
La sentenza, che si riporta integralmente di seguito, offre un interessante spunto di riflessione in relazione alle novità che potranno essere introdotte dal “jobs act” in materia di salario minimo legale (comma 7, lett. g, dell’art. unico legge delega n. 183/2014).”