estromissione abitazione

Con la pronuncia n. 71214 del 21 marzo 2013, la II sezione della Corte di Cassazione si è soffermata su una delicata tematica riguardante la c.d. convivenza more uxorio, ed in particolare sull’idoneità della convivenza a generare una detenzione qualificata di un immobile.

Nel caso concreto, uno dei due conviventi, proprietario dell’immobile adibito a casa familiare, aveva estromesso l’altro dalla possibilità di accedervi non appena venuta meno la convivenza. Nei due precedenti gradi di giudizio, i giudici di merito avevano accolto la domanda del convivente estromesso volta alla reintegrazione del compossesso dell’appartamento.

In sede di legittimità, la convivente proprietaria del bene aveva evidenziato come “la situazione di compossesso non si potrebbe dedurre dalla convivenza more uxorio tra le parti, giacché la libera convivenza è un’unione basata sull’affectio e, in mancanza dei caratteri propri del matrimonio, non si potrebbero ricollegare ad essa gli effetti giuridici propri del possesso. La situazione di fatto del convivente more uxorio sarebbe caratterizzata da precarietà, e la sua relazione con la cosa sarebbe assimilabile a quella di un ospite”.

La Corte di Cassazione, evidenziando comunque la mancanza di una specifica normativa in materia, ha rigettato tale ricostruzione sulla base di una valutazione di insieme di varie fonti normative che danno rilievo alla convivenza more uxorio. Più specificamente la Corte ha sottolineato come “dal momento che la famiglia di fatto è compresa tra le formazioni sociali che l’art. 2 della Costituzione considera la sede di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della casa familiare, di proprietà del compagno o della compagna, per soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità è custodita dalla Costituzione, sì da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata”.

I giudici di legittimità hanno comunque precisato come ciò “non significa pervenire ad un completo pareggiamento tra la convivenza more uxorio ed il matrimonio”, ma che “l’assenza di un giudice della dissoluzione del ménage non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare, come è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione”.