L’art. 2043 c.c. dispone che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

La struttura dell’illecito si compone dei seguenti elementi: la condotta (ossia il fatto), che può essere attiva oppure omissiva, l’evento, ossia il danno ingiusto diretta conseguenza della condotta, il nesso di causalità tra i due, l’elemento soggettivo (dolo e colpa), le conseguenze dannose che debbono essere risarcite dal danneggiante e il nesso di causalità tra fatto illecito e danni risarcibili.

È facile, quindi, constatare che il giudizio di causalità si palesa due volte: la prima volta, nel rapporto tra fatto ed evento di danno; la seconda, tra il fatto unitariamente considerato e il danno conseguenza. Ne consegue la differenza tra causalità di fatto, regolata dalle leggi scientifiche (norme del primo tipo) e causalità giuridica, regolata dal diritto (norme del secondo tipo).

La disciplina civilistica del fatto illecito non regola la causalità materiale, i cui dettami devono ricavarsi sistematicamente dagli artt. 40 e 41 del codice penale, secondo la ricostruzione datane dalla nota sentenza “Franzese” resa dalla Cassazione a Sezioni Unite ormai più di dieci anni fa. Orbene, un fatto può considerarsi causativo di un evento se di esso è condizione necessaria, con l’esclusione, quindi, di concause che da sole siano state sufficienti a produrre il danno. L’applicazione di tali principi generali è temperata dalla c.d. regolarità causale (o causalità adeguata), secondo cui, all’interno delle serie causali così determinate, si deve dare rilievo solo a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili. L’ indicatore a disposizione dell’interprete per affermare o meno l’esistenza del nesso è dato dal criterio del “più probabile che non”, a differenza che nel diritto penale laddove vige la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio”(art. 533, c.p.p.). Ciò si spiega con la differenza ontologica tra i due giudizi: nel giudizio penale tutto ruota attorno alla figura del reo e la pena consiste nella limitazione della sua libertà; nel giudizio civile l’obiettivo è il ristoro integrale del danneggiato e la sanzione ha carattere economico.

Venendo al secondo tipo di causalità, ossia quella giuridica, che lega il fatto illecito alle conseguenze risarcibili, essa è disciplinata dagli artt. 1223 e ss. c.c., secondo cui il risarcimento deve ricomprendere le perdite che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito. Tale disciplina consente al giudice l’individuazione delle singole conseguenze dannose con la precipua funzione di delimitare i confini della già accertata (attraverso la causalità materiale) responsabilità risarcitoria. In altre parole, il giudice sarà chiamato a valutare l’esistenza di conseguenze risarcibili e, eventualmente, a stabilire a quanto ammontano.

A questo proposito, una breve digressione si impone per i danni c.d. “riflessi” o “da rimbalzo”. Essi consistono nel danno patito da una sfera giuridica collegata a quella lesa direttamente dalla condotta illecita altrui. In tempi remoti, essi venivano riconosciuti solo laddove la vittima principale non potesse far valere il suo danno (ad es. per morte). Così, i parenti della vittima uccisa potevano chiedere il risarcimento del danno iure proprio, ma non potevano chiedere alcunché i congiunti della vittima di lesioni, ancorché la loro qualità della vita avesse subito un pregiudizio per le cure costanti da rivolgere al parente leso. Di recente la questione è stata impostata diversamente: il danno riflesso è pur sempre un danno diretto. Infatti, il danno indiretto non è un danno ulteriore bensì indica la propagazione delle conseguenze dell’illecito alle c.d. vittime secondarie. E ciò a prescindere che il risarcimento alla vittima primaria sia “saltato”. Ovviamente, il danno patito dalle vittime secondarie, al pari di quello patito dalle vittime primarie, deve essere accertato.