Il Mobbing, termine coniato negli anni settanta del XX secolo dall’etologo Konrad Lorenz, può essere utilizzato in svariati contesti ma trova la sua maggiore espressione in ambiti lavorativi come la scuola e il posto di lavoro. In quante occasioni si è sentito parlare di questa problematica, sempre attuale, consistente in comportamenti aggressivi di natura fisica, verbale o psicologica esercitati ai danni di colleghi e/o prestatori di lavoro? Sono svariate le casistiche di insorgenza di malattie provocate da siffatte condotte prepotenti, offensive e denigratorie che minano la tranquillità lavorativa.
Ma quali comportamenti possono essere classificati come mobbing?
Fin dal 2012 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, è intervenuta con un’importante pronuncia (sentenza n. 87 del 10 gennaio 2012) che fa luce a tal riguardo. Secondo la Cassazione si parla di: “una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente sul luogo di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica,da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore, con l’effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e della sua personalità”.
Tra gli elementi riconosciuti dalla Cassazione vengono ribaditi: una molteplicità di comportamenti persecutori, un evento lesivo della salute, un nesso tra la condotta del datore di lavoro ed il pregiudizio all’integrità psicofisica, la prova dell’intento persecutorio. La speranza è che queste linee guida aiutino a portare chiarezza nel mondo del lavoro, reprimendo il Mobbing, e tutelando i lavoratori nell’asimmetria che da sempre contraddistingue il rapporto datore-prestatore.
Attenzione, però, perché avere un brutto carattere, irascibile e non consono alla serietà e professionalità dell’ambiente lavorativo non rientra nei casi oggetto di tutela; in un caso specifico ad esempio il giudice di merito ha, infatti, respinto il ricorso di una lavoratrice con problemi caratteriali, dipendente di una struttura sanitaria, che riferiva di essere stata sottoposta a comportamenti mobbizzanti da parte di colleghi e superiori, nonché demansionata, e – secondo la prospettazione della dipendente, a causa di tali condotte, essa era caduta in uno stato di prostrazione (sindrome depressiva) e aveva richiesto la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni.
La Cassazione ha, però, confermato la sentenza d’appello che a sua volta aveva respinto la domanda di condanna, poichè era stato ravvisato che il peggioramento delle condizioni psico-fisiche della lavoratrice non era dipeso in modo causalmente diretto da comportamenti del datore di lavoro da far rientrare nell’ipotesi del mobbing, bensì erano causati (in tutto o in parte) da una indole caratteriale della ricorrente, che prescindeva dalle vicende aziendali. Quindi, prima di intentare una causa per mobbing, è bene valutare con grande attenzione se si è in presenza di comportamenti del datore di lavoro (o dei colleghi) che possono rientrare nelle ipotesi sopra descritte, se vi sono dei danni che ne derivano al lavoratore, e se tra i primi ed i secondi vi è uno stretto nesso di causalità, senza che intervengano diversi fattori a compromettere questo nesso.