Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo, entrambe giudici delle sezioni lavoro delle Corti di Appello rispettivamente la prima di Bologna e la seconda di Torino, hanno recentemente dato alle stampe un testo dal titolo “E lo chiamano lavoro …”, editore il Gruppo Abele.
Dalla quarta di copertica citiamo la presentazione. “L’età di Marchionne, oltre alla contrazione del numero di auto prodotte e alla fuga della Fiat dall’Italia, ha un marchio di fabbrica univoco. Il lavoro non c’è, e quando c’è, è sottopagato, precario, privo di diritti e di garanzie. Il numero di disoccupati è in continua crescita e non bastano, a invertire la tendenza, il moltiplicarsi di tipologie contrattuali sempre meno garantite e gli ottimistici anninci di ripresa di un premier specializzato in promesse, La situazione è determinata, certo, da ragioni economiche ma ad esse si accompagnano, nel definirla, ragioni culturali e politiche altrettanto profonde. La classe operaia – è noto – non va più in paradiso (e quella, sempre più ristretta, dei contadini, non c’è mai andata). Non per caso, ma per scelta. Contrapporre il lavoro ai diritti, quasi fossero questi ultimi ad ostacolare la crescita del primo, infatti, non ha nulla a che fare con l’occupazione ma serve a ridifinire l’organizzazione della sociatà e le sue gerarchie. La dice in modo evidente la parabola del diritto del lavoro, dallo Statuto del 1970 al jobs act. IN poco più di quarant’anni è cambiato tutto e lo Statuto sembra, oggi, un guscio vuoto: il dilagare del mito della flessibilità, dipinto come risorsa per distribuire meglio tempi di vita e risorse economiche, non ha favorito lo sviluppo dell’occupazione, ma ha determinato impoverimento ed insicurezza. INdietro, peraltro, non si torna. E si apre dunque il problema del che fare”.