Un importante evento si svolgerà nei prossimi giorni presso la Cineteca di Bologna.
Con l’organizzazione della Cineteca stessa, della Fondazione Forense, dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, dell’Associazione Girodivalzer, e di Libera, il 6 aprile, dalle 18 alle 20, con accreditamento per la formazione continua degli avvocati, si parlerà dell’importante e sempre attuale tema della confisca dei beni della criminalità organizzata e del loro riutilizzo da parte della società civile.

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Di seguito, per una approfondita presentazione del seminario, riportiamo uno scritto dal titolo

“Storia della legge sulla confisca dei beni alla mafia” di Lorenzo Frigerio, giornalista della Fondazione Libera Informazione, membro dell’Ufficio di presidenza e referente per la Lombardia di «Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie».

La confisca dei beni alle mafie Luci e ombre di un percorso civile

Il cammino che ha portato lo Stato italiano a perfezionare, nel corso dei decenni, le modalità di «aggressione» ai patrimoni mafiosi è lungo e costellato di sacrifici, violenze e ritardi, ma anche ricco di risultati un tempo impensabili che vanno rinforzati se si vuole davvero debellare la minaccia delle cosche. Nelle pagine che seguono proveremo a ripercorrere le tappe principali di tale cammino dagli esordi degli anni Sessanta fino alla legislazione degli anni Novanta, passando per lo spartiacque della legge Rognoni-La Torre del 1982, per soffermarci quindi sulle luci e le ombre della situazione attuale, sia sotto il profilo dei risultati ottenuti, sia sotto quello delle prospettive di azione rimaste aperte.

1. L’intuizione di Pio La Torre

Il primo a riflettere sull’importanza strategica del patrimonio per i mafiosi fu il segretario del pci siciliano Pio La Torre, che visse in prima persona l’evoluzione della mafia di un tempo, quella agraria dei «gabellotti» e dei «campieri» che legava il proprio potere al controllo del latifondo isolano3. Era ancora giovanissimo, La Torre, quando alla Camera del Lavoro di Corleone prese il testimone del sindacalista Placido Rizzotto, che era tornato in paese al termine della lotta partigiana con il sogno di costruire per sé e per gli altri un futuro fatto di lavoro onesto, ma che venne ucciso nel 1948 da Luciano Liggio. Da quell’osservatorio privilegiato La Torre vide i temibili corleonesi muovere alla conquista di Palermo e della leadership di Cosa Nostra, cogliendo la trasformazione di una mafia non più ancorata ai vecchi meccanismi di accumulazione del capitale attraverso le rendite fondiarie, bensì proiettata in una dimensione internazionale, verso quella globalizzazione del crimine con cui oggi ci troviamo a fare i conti4.

È grazie alle floride entrate garantite dai nuovi business — su tutti il traffico di droga — che le cosche rafforzarono la loro posizione all’interno della società siciliana, pronte ormai a sedersi al tavolo degli affari con rappresentanti della politica, dell’imprenditoria, delle stesse istituzioni. Pio La Torre, insieme a pochi altri, si avvide dell’estrema pericolosità di questi veri e propri imprenditori del crimine.

La situazione era drammatica, anche per gli insuccessi registrati in ambito giudiziario, con la raffica di assoluzioni per insufficienza di prove che, sul finire degli anni Sessanta, chiudeva i processi alle cosche di Palermo e provincia, celebrati a Bari e Catanzaro per imprecisate ragioni di ordine pubblico. Si riproponeva così la questione forse più impellente per lo Stato: se non si voleva esse- re costretti a continuare a perseguire il singolo reato perdendo di vista la dimensione associativa, servivano nuove norme per combattere la mafia. La L. 31 maggio 1965, n. 575, infatti, pur essendo intitolata Disposizioni contro la mafia, si limitava a estendere ai mafiosi le misure di prevenzione personale, fino ad allora applicabili alle persone socialmente pericolose.

La ricerca di soluzioni legislative per contrastare la mafia impegnò La Torre negli ultimi anni della sua vita, a partire dall’impegno nella Commissione parlamentare antimafia (6), dove, nel 1976, riuscì a fare approvare una relazione di minoranza che conteneva una delle analisi più lucide del fenomeno mafioso. Purtroppo il coraggioso politico non vide i risultati del suo impegno: fu infatti ucciso in un agguato il 30 aprile 1982 assieme al compagno di partito Rosario Di Salvo. Il duplice efferato omicidio non bastò a smuovere il disegno di legge dalle secche del Parlamento; solo dopo un nuovo terribile agguato, quello che costò la vita al prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo (3 settembre 1982), l’iter legislativo riuscì ad arrivare a compimento.

La legge che prese il nome da lui e dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni costituì una «rivoluzione copernicana» per le sue ricadute operative immediate.

Attraverso di essa fu finalmente introdotto nel nostro Codice penale l’articolo 416 bis che sanziona l’associazione mafiosa in quanto tale. Il terzo comma dell’articolo in questione è la sintesi più alta di oltre vent’anni di ricerca e impegno: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».

2. L’aggressione ai patrimoni mafiosi

Le nuove possibilità investigative e giudiziarie rese possibili dall’introduzione nel Codice penale dell’art. 416 bis trovarono una prima straordinaria conferma pochi anni dopo con l’istruzione del cosiddetto maxiprocesso alle cosche palermitane. Un processo che costò il sangue di numerosi servitori dello Stato, spazzati via dalla furia omicida dei boss nel tentativo disperato di fermare il pool antimafia: prima il giudice istruttore Rocco Chinnici, ucciso con un’autobomba sotto casa (29 luglio 1983), poi i funzionari di

Polizia Beppe Montana (28 luglio 1985) e Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia (6 agosto 1985). Il testimone venne raccolto da coraggiosi magistrati quali Antonino Caponnetto — trasferitosi da Firenze in Sicilia per prendere il posto di Chinnici alla guida dell’Ufficio istruzione —, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Anch’essi in pericolo di vita, furono costretti a rifugiarsi all’Asinara per terminare la voluminosa ordinanza che inchiodava capi e gregari mafiosi alle proprie responsabilità.

Il primo maxiprocesso a Cosa Nostra, apertosi con clamore e fra grandi aspettative nel febbraio del 1986 — anche in ragione delle collaborazioni di alcuni «uomini d’onore» quali Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno — si chiuse il 16 dicembre dell’anno dopo con la richiesta di diciannove ergastoli, oltre duemilaseicento anni di carcere e più di trecento condanne «minori». Una sentenza di primo grado che, dopo le traversie dell’appello, trovò conferma nella pronuncia della Corte di Cassazione il 31 gennaio 1992 e scatenò la durissima reazione dei corleonesi, i quali eliminarono uno dopo l’altro i nemici storici Falcone (23 maggio) e Borsellino (19 luglio), e gli amici di un tempo, Salvo Lima (12 marzo) e Ignazio Salvo (17 settembre), «rei» di non avere mantenuto le pro- messe di «aggiustamento» del verdetto in Cassazione.

Al maxiprocesso fu applicata per la prima volta la norma sui patrimoni prevista dalla legge «Rognoni-La Torre», che ha introdotto la confisca dei beni per coloro che fossero riconosciuti mafiosi: «Nei confronti del condannato — recita infatti il c. 7 dell’art. 416 bis — è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego».

La direzione strategica del legislatore è chiara: colpire la mafia non più — o per meglio dire, non soltanto — perseguendo i singoli reati, bensì nella fase di accumulazione di quegli ingenti capitali che sono il valore aggiunto dell’organizzazione, che riesce sempre a ricostituire le fila del proprio esercito proprio grazie all’enorme disponibilità di denaro, vero fattore inquinante dell’economia e della società nei territori del Mezzogiorno d’Italia.

A tale proposito va ricordata anche la modifica sostanziale di quanto disposto dalla L. n. 575/1965, con l’introduzione delle misure di carattere patrimoniale nel procedimento di prevenzione tradizionale (sorveglianza speciale e obbligo di soggiorno), vale a dire il sequestro e l’eventuale confisca dei beni disposti «a carico delle persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso» (art. 14). Per l’applicazione del sequestro in via provvisoria, la norma parla di sufficienti indizi, come «la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati» tale che «si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego» (ivi).

La legge ha reso così possibili indagini sul tenore di vita, sul patrimonio e sulle disponibilità finanziarie di tutte quelle persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, ma anche nei confronti dei familiari e conviventi e di quelle persone fisiche o giuridiche, associazioni o enti, dei cui patrimoni costoro risultassero poter disporre. La confisca, misura viceversa definitiva, scatta invece quando il soggetto non riesce a dimostrare la legittima provenienza delle ricchezze sotto sequestro. I beni confiscati finiscono così nella disponibilità dello Stato (cfr il riquadro qui sotto).

3. La petizione di Libera e la Legge n. 109/1996

Purtroppo, dopo i primi successi, collegabili in qualche misura al maxiprocesso, la nuova normativa ha stentato a funzionare, soprattutto per la complessità delle indagini patrimoniali da svolgere, ma anche per la mancata previsione circa la destinazione e l’utilizzo dei beni confiscati ai mafiosi.
Nonostante qualche tentativo di correggere le disfunzioni che impedivano il pieno successo delle misure di prevenzione patrimoniale, si dovette arrivare alle terribili stragi del 1992 e 1993 per avviare una nuova riflessione sulla centralità della dimensione economica nel contrasto alle mafie, come già evidenziato a suo tempo da Pio La Torre e altri15.

In quei terribili anni, sull’onda emotiva del terrore suscitato nel Paese, nacque un moto diffuso e spontaneo di ribellione alla cultura della morte dei clan mafiosi. Cittadini, associazioni, soggetti collettivi di vario orientamento politico, religioso, ideale presero coscienza del fatto che la lotta alle mafie non poteva essere risolta solo sul versante della mera repressione. Non era più possibile delegare ad altri — magistrati e forze dell’ordine — l’impegno nel contrastare il proliferare delle organizzazioni mafiose nel nostro Paese. Si poteva e si doveva fare molto di più in ambito educativo, nell’animazione democratica del territorio, per coinvolgere i cittadini nell’affermazione della legalità quotidiana, nella realizzazione di quei principi costituzionali che sono l’unico vero antidoto alla cultura mafiosa e all’impresa illegale16. E occorreva pertanto invalidare gli effetti pervasivi delle ricchezze di origine criminale sul tessuto sociale ed economico.

Non fu dunque casuale se la prima iniziativa nazionale di network associativo nato per l’affermazione della legalità e il contrasto al crimine organizzato — che decise di chiamarsi Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie — fosse proprio una raccolta di firme per un disegno di legge che introducesse il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle stesse cosche. Si chiuse così il cerchio con le brillanti intuizioni di La Torre. Oltre un milione di cittadini rappresentativi di ogni parte d’Italia, in migliaia di iniziative pubbliche, misero la loro firma in calce alla richiesta di nuove norme in tema di aggressione ai patrimoni delle associazioni mafiose.

La L. n. 109/199617 venne approvata in sede deliberante dalla Commissione Giustizia, a legislatura finita. Con essa si apriva una nuova stagione di lotta alle mafie: i beni immobili confiscati alle cosche potevano rimanere nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile oppure, tramite l’Agenzia del Demanio, essere trasferiti ai Comuni per finalità istituzionali o sociali, con la successiva assegnazione in comodato a enti, associazioni del volontariato e della società civile18.

Nel corso degli ultimi anni il sequestro e la confisca dei patrimoni illecitamente accumulati hanno così assunto un ruolo sempre più decisivo nel contrasto al riciclaggio di denaro sporco e al reimpiego dei proventi derivanti dai business illegali delle mafie. Oltre ai danni materiali, la legge ha avuto un altro innegabile valore, non solo simbolico, ma molto concreto: quello cioè di offusca- re l’immagine di prestigio e preminenza che gli «uomini d’onore» tendono ad accreditarsi nei territori che controllano. Il messaggio della L. n. 109/1996 è fortemente positivo perché connotato eticamente: si mira a distruggere il consenso sociale delle mafie, dimostrando nei fatti che il crimine non paga e che, viceversa, la fiducia nello Stato e nella collettività, di cui tutti facciamo parte, è la vera risposta all’isolamento, alla violenza, al crimine.

5. Un cammino fatto di luci…

Grazie alla legge sull’utilizzo sociale dei beni confiscati, in venti anni sono nate esperienze imprenditoriali e cooperativistiche di indubbio valore: molti giovani hanno avuto l’opportunità di un lavoro onesto, senza dover fuggire o scendere a compromessi; moltissimi territori, per troppo tempo soggiogati alla violenza mafiosa, hanno potuto vivere così il tempo del riscatto sociale ed economico.
Proprio nei luoghi dell’Alto Belice corleonese, da dove i boss Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella mossero alla conquista di Palermo, ha messo le radici un vero e proprio cambiamento epocale. Nel luglio 2001 centinaia di giovani hanno partecipato alla selezione per quindici posti messi a bando per la costituzione di una cooperativa che prendesse in gestione alcuni terreni concessi dal Consorzio sviluppo e legalità nei comuni di Piana degli Albanesi, Corleone, San Giuseppe Jato, San Cipirello e Monreale. Nel luglio del 2002 gli sforzi iniziali sono stati ripagati con la mietitura del grano, primo passaggio per la produzione della pasta. Da allora ogni tappa si è trasformata in un successo. Non solo si è dimostrato nei fatti che lavoro e dignità sono parole cariche di valore e che è praticabile una seria alternativa al controllo mafioso dell’economia e del territorio, ma è anche emersa con chiarezza la possibilità di incontrare i favori dei consumatori e degli intenditori del biologico e del buon cibo. Oggi sono in produzione grano duro, ceci, lenticchie, cicerchie, meloni e pomodori; dalle uve dei vigneti recuperati nascono il vino bianco Placido e il rosso Centopassi. La cooperativa, inoltre, ha avuto in gestione l’agriturismo Portella della Ginestra, con annesso un centro ippico intitolato al piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato nel 1993 dalla cosca dei fratelli Brusca perché figlio di un collaboratore di giustizia e poi ucciso brutalmente — il suo corpo venne sciolto nell’acido — al termine di un sequestro di persona durato poco più di due anni.

In pochi anni la cooperativa Placido Rizzotto è diventata il modello per altre esperienze analoghe in Calabria e Puglia, oltre che in Sicilia; sempre con la procedura della selezione tramite bando pubblico, sotto la regia dell’associazione guidata da don Luigi Ciotti, sono nate le cooperative Valle del Marro in Calabria, Pio La Torre in Sicilia e Terre di Puglia nel Salento. Altre esperienze di cooperazione hanno chiesto di partecipare al progetto e per questo, su iniziativa di Libera, è nato il marchio di qualità e legalità Libera Terra che identifica i prodotti (pasta, olio, vino, marmellate e miele, passata di pomodoro, legumi, ecc.) delle cooperative di giovani che lavorano sui terreni confiscati in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia e nel Lazio e che oggi vengono commercializzati in tutta Italia.

Se le cooperative agricole sono sicuramente l’esempio più tangibile del successo della legge sulla confisca dei beni, non vanno dimenticati i tanti immobili che, al Sud come al Nord, sono tornati in possesso dello Stato e affidati alla collettività, tramite progetti di riutilizzo a fini sociali. Comunità di recupero per tossicodipendenti, centri di riabilitazione per anziani, luoghi di aggregazione per giovani, sedi per associazioni e gruppi: l’elenco di quanto è stato fatto in venti anni di applicazione della L. n. 109/1996 è davvero importante. Il sottile filo rosso che lega questi straordinari risultati è la raggiunta consapevolezza, da parte delle istituzioni, dei cittadini, delle associazioni, che la battaglia contro le mafie può essere vinta se ognuno fa la sua parte, fino in fondo. Piccoli segni, forse, ma un tempo erano solo sogni: indietro sicuramente non si può tornare.

6. …e di ombre

Quanto finora ricordato, al di là del motivato orgoglio per i successi ottenuti, non deve far dimenticare le mille difficoltà quotidiane che si trovano nell’applicare le leggi dello Stato in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi.

Basti pensare, innanzitutto, agli attacchi che le cooperative e le associazioni che gestiscono i beni confiscati subiscono costantemente: dalle intimidazioni fisiche ai danneggiamenti veri e propri. I mafiosi, che non sopportano in alcun modo l’affronto rappresentato dalla sottrazione della propria «roba», non mancano mai di allentare la pressione sul territorio con minacce e violenze. Questi momenti difficili vengono superati grazie alla rete di alleanze, collaborazioni e solidarietà che in questi anni recenti il fronte dell’associazionismo antimafia è riuscito a costruire attorno alle realtà più esposte nei territori alle prepotenze criminali.

Come già ricordato, anche il complesso normativo mostra qualche evidente lacuna a cui bisognerebbe porre rimedio quanto prima. Innanzitutto il trascorrere degli anni, senza che si arrivi all’effettivo utilizzo dei beni, rischia di vanificare molti progetti. Ritardi e lentezze di ogni tipo aumentano il lasso di tempo che trascorre dal sequestro alla confisca e da questa alla definitiva destinazione: si calcola che normalmente ci vogliano dagli otto ai dieci anni per vedere il bene utilizzato. Il segnale che viene dato alla pubblica opinione in questo caso è estremamente negativo: lo Stato non riesce a utilizzare in tempi rapidi quello che sotto la gestione del mafioso era produttivo in termini di reddito.

La ragione fondamentale per cui viene richiesta l’Agenzia per i beni confiscati è la fondata convinzione che un solo soggetto preposto alla gestione potrebbe eliminare quei tempi morti che finiscono con il vanificare l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura che sono riusciti a individuare le ricchezze dei mafiosi e a sottrarle loro.
Altri problemi che si presentano sono l’insufficiente trasparenza nella fase di assegnazione dei beni stessi: una procedura di evidenza pubblica potrebbe eliminare sospetti e fraintendimenti nell’azione delle amministrazioni comunali, evitando consegne a soggetti il cui unico merito è la vicinanza politica o, peggio ancora, conferimenti a realtà dietro le quali si celano gli «amici degli amici».

Non dimentichiamo, infatti, che l’utilizzo di prestanome è prassi consolidata nelle organizzazioni criminali: ben pochi sono i beni intestati ai mafiosi o ai loro parenti diretti.

Spesso vengono costituite posizioni creditorie di comodo per far saltare l’azione delle misure di prevenzione. Anche su questo aspetto servono modifiche legislative.

Un’ulteriore, annosa questione è la necessità di finanziamenti per ristrutturare i beni confiscati, spesso distrutti dai loro precedenti proprietari o semplicemente danneggiati dal passare del tempo. Alcune Regioni hanno provveduto stanziando, all’interno di leggi-quadro per promuovere la cultura della legalità, appositi fondi per sistemare dignitosamente gli immobili colpiti da incuria o danneggiamenti. Spesso le risorse non bastano e ancora una volta è dovuta intervenire la solidarietà fattiva di cittadini ed enti locali che hanno promosso così il restauro dei beni. Anche in questo caso sarebbe più utile un approccio strutturale, con la creazione di un fondo nazionale permanente, nel quale fare confluire i proventi della gestione, prima della destinazione finale, e il denaro e i titoli sequestrati alle mafie.

Nella Legge finanziaria per il 2008 vengono introdotte ulteriori norme in materia di confisca e utilizzo, che disegnano un nuovo ruolo anche per Province e Regioni e la previsione della confisca ai sensi della L. n. 109/1996 anche dei beni di quanti vengono condannati per corruzione. È ancora presto per tracciare un quadro delle modifiche in questione, così come sono tutti da valutare gli effetti pratici dei protocolli promossi dall’Agenzia del Demanio in alcune delle grandi città del nostro Paese per accelerare l’assegnazione e l’utilizzo dei beni. Resta quindi molto da fare. Bisogna continuare a tenere alta la guardia nella lotta alla mafia, soprattutto nell’aggressione ai suoi patrimoni, se si vuole dimostrare che sì, è possibile, che la mafia restituisca il maltolto.

In tutto questo contesto si colloca la legge n. 109/96 sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, che ha permesso di creare in molti territori e non solo nel sud d’Italia le condizioni per un lavoro vero per giovani che su questa opportunità hanno investito e trovato una occasione di riscatto sociale e economico. Penso appunto a quei giovani che hanno costituito le cooperative sui terreni confiscati a Cosa nostra in Sicilia, alla ‘Ndrangheta in Calabria, alla Camorra a Napoli, alla Sacra Corona Unita a Brindisi.

La legge n. 109/96 ha, pertanto, previsto l’esclusivo uso sociale ed il divieto assoluto di vendita del bene confiscato. Tante e significative sono state le esperienze positive realizzate in questi primi venti anni di applicazione della legge.

Ma c’è ancora molto da fare perché le esperienze positive avviate mettano radici e, soprattutto, si moltiplichino. Riteniamo che questa sia una delle strade più giuste per ricavare un reddito pulito, onesto, da quei beni sottratti alla collettività dalle mafie e riconquistati grazie all’azione positiva dello Stato. Non è, insomma, un’utopia, ma è frutto di lavoro, dignità e giustizia.

La sede nazionale di Libera a Roma si trova su un bene confiscato alla banda della Magliana. A Roma è nata una casa del volontariato, è nata la casa del Jazz, in una villa molto prestigiosa. Un altro progetto è “La scuola adotta un bene confiscato”: che permette agli studenti di essere documentati sulla storia di quel bene e di progettare il suo riutilizzo, secondo le effettive esigenze di quel territorio.

Ci sono tante difficoltà e l’impegno deve essere quello di creare le condizioni affinché si considerino i beni confiscati come una risorsa per lo sviluppo ordinario economico e sociale del territorio. Pertanto risulta importante far passare soprattutto il valore simbolico di queste azioni: alcuni sociologi hanno colto in pieno il significato di questa legge sostenendo che “l’uso sociale dei beni confiscati ha consentito nel nostro Paese di scardinare nel nostro Paese quel consenso sociale che le mafie hanno sul territorio” e fatto non solo di collusioni a livello politico, economico e finanziario, ma anche di indifferenza, rassegnazione e omertà.