L’art. 67 della legge fallimentare costituisce la disposizione cardine del sistema normativo delineato dagli art. 64-70 l.f. sezione che, a sua volta, rappresenta uno dei pilastri su cui si basa l’intero sistema normativo in materia fallimentare del nostro ordinamento.
La sezione in esame è stata oggetto di numerose novelle: dal D.L. n. 35 del 2005,  e, in tempi più recenti, dal D.lgs n. 5 del 2006, dal D.lgs n. 169 del 2007 e, da ultimo, dal D.lgs n. 83 del 2012.

L’azione revocatoria fallimentare è un’azione sostanzialmente finalizzata a far perdere efficacia giuridica agli atti compiuti nel cosiddetto “periodo sospetto” dal debitore fallito che hanno cagionato un danno alla par condicio creditorum; è dunque il tipico strumento utilizzato dal curatore fallimentare il quale deve proporre la suddetta azione  davanti al Tribunale che ha dichiarato il fallimento, entro tre anni dalla dichiarazione e comunque non oltre cinque anni dal compimento dell’atto, a pena di decadenza, così come previsto dall’art. 69 bis l.f.

Attraverso l’azione, gli atti di disposizione, i pagamenti e le garanzie poste in essere dal fallito nell’anno o nei sei mesi antecedenti al fallimento, sono inefficaci, salvo che l’altra parte provi di non essere a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore.

Una volta che il terzo, per effetto della revocatoria, abbia restituito quanto aveva ricevuto dal debitore, lo stesso viene ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito. Inoltre, qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo è tenuto a restituire “una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si e’ aperto il concorso”, facendo salvo il diritto del convenuto d’insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito (art. 70, 3° comma, L.F.).

Ad ogni buon conto, non tutti gli atti compiuti dal fallito possono essere colpiti dall’azione revocatoria: la riforma del diritto fallimentare ha infatti introdotto nel terzo comma dell’art. 67 L.F. sette categorie di atti sottratti alla revoca domandata dal curatore:

a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso;

b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

c) le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell’attività d’impresa dell’acquirente, purché alla data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente esercitata ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio (1);

d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore;

e) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, nonché dell’accordo omologato ai sensi dell’articolo 182-bis, nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all’articolo 161;

f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito;

g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.

Da ultimo, anche alla luce delle novità introdotte, è ancora aperto il problema relativo alla natura e alla ratio della revocatoria fallimentare.
Al riguardo taluni ritengono che l’azione revocatoria rappresenti una species del genus della revocatoria ordinaria, disciplinata dall’art. 2901 c.c. e si differenzi da questa esclusivamente sul piano processuale, per la maggiore facilità di prova e la maggiore ampiezza delle conseguenze legali della pronuncia di revoca.

Altri sostengono invece che le due azioni si caratterizzino per presupposti diversi. Per lungo tempo la giurisprudenza – in accoglimento della c.d. teoria indennitaria – ha sostenuto che la revocatoria fallimentare, al pari della revocatoria ordinaria, presuppone la sussistenza di un danno, che tuttavia talune pronunce hanno ritenuto potersi risolvere nella semplice lesione della par condicio creditorum.

In senso contrario alla teoria indennitaria si sono espressi sia coloro che ritengono irrilevante il danno nella revocatoria fallimentare perché presunto iuris et de iure sia soprattutto i fautori della teoria anti indennitaria o redistributiva, secondo i quali la revocatoria fallimentare potrebbe colpire anche atti in sé non dannosi, o addirittura vantaggiosi, cosicchè la ratio dell’istituto sarebbe quella di redistribuire le perdite derivanti dall’insolvenza del fallito tra tutti coloro che, nel periodo sospetto, hanno beneficiato di suoi atti di disposizione patrimoniale consapevoli dello stato di decozione in cui versava.