Torniamo a parlare del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, recentemente ribattezzato “licenziamento economico” dai mass media e dai nostri politici.
Tale licenziamento implica, sulla base di un orientamento dei giudici vigente da molti anni, che il datore di lavoro, quando pone a base del licenziamento il venir meno del posto di lavoro del dipendente, dimostri anche che il dipendente stesso non può essere reimpiegato in altre posizioni lavorative dell’azienda.
Questa regola si è poi ulteriormente “complicata”, perchè alcuni giudici ritengono che mentre il datore di lavoro deve dimostrare (nel giudizio di impugnazione del licenziamento) sia che il posto di lavoro precendemente occupato è venuto meno, sia che non era possibile trovarne uno diverso, secondo altri invece questa seconda prova deve essere offerta – seppure in senso contrario – dal lavoratore, il quale è lui a dover indicare la esistenza di un diverso posto di lavoro da lui occupabile.
E su questa differenziazione la stessa Corte di Cassazione si sta dividendo.
Come precisamente illustrato dalla rivista on line Wikilabour, “dopo un mese dalla decisione di segno opposto n. 9567/2016 , la Corte torna, con una motivazione critica molto argomentata sul piano dogmatico, a condividere la decisione di Cass. n. 5592/2016, e pertanto ribadisce che non è certo onere del dipendente licenziato per soppressione del posto di “collaborare” (pena la conferma del licenziamento), indicando l’esistenza in azienda di un posto disponibile che egli avrebbe potuto occupare e attribuisce viceversa interamente al datore di lavoro l’onere di dedurre e provare in giudizio di non avere tale disponibilità. La decisione è interessante anche perché pone chiaramente a carico del datore di lavoro anche l’onere in giudizio di dedurre e provare di non avere assunto dopo il licenziamento altri dipendenti per mansioni analoghe a quelle soppresse.”