cicerone

Dal trattato “Dei doveri”, composto nell’autunno del 44 A.C., riportiamo il Capitolo IX dal titolo “E’ dovere combattere per la giustizia”.

L’opera “Dei doveri“, composta meno di un anno prima della morte (violenta) dell’autore, riassume – con immensa forza espressiva – il pensiero, la tensione intellettuale e morale di Cicerone.

Il testo in latino e la traduzione sono tratti dalla bellissima collana i Prosatori di Roma, pubblicata dalla casa editrice Zanichelli di Bologna, edizione VII del 1969, curata e tradotta da Dario Arfelli, pagg. 43-45.

“Parecchie sono le ragioni che inducono gli uomini a trascurare l’altrui difesa, mancando così al proprio dovere: o non vogliono procurarsi inimicizie, fatiche, spese, ovvero la negligenza, la pigrizia, l’inerzia, o anche certe loro particolari inclinazioni e occupazioni li impediscono in maniera che essi lasciano nell’abbandono quelli che avrebbero il dovere di proteggere. Temo pertanto che non soddisfi appieno ciò che Platone dice a proposito dei filosofi, che, cioè, essi sono giusti appunto perché, immersi nella ricerca del vero, tengono in poco e in nessun conto quelle cose che i più agognano con impetuoso ardore, quelle cose per cui vogliono combattere tra loro pur con le armi. Infatti, se essi adempiono una parte della giustizia, in quanto non recano né danno né offesa ad alcuno, contravvengono però all’altra: impediti dall’amor del sapere, abbandonano proprio quelli che essi hanno il dovere di proteggere. Credono pertanto i seguaci di Platone che i filosofi non debbano neppure accostarsi alla vita pubblica, se non costretti. Molto meglio sarebbe, invece, che vi si accostassero spontaneamente; perché anche un’azione retta non è giusta se non è spontanea.

Vi sono anche quelli che, o per desiderio di ben custodire le proprie sostanze, o per una tal quale avversione contro gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza credere perciò di far torto ad alcuno. Costoro, se sono esenti da una specie di ingiustizia, incorrono però nell’altra: disertano l’umana società, perché non conferiscono ad essa né amore, né attività, né denaro.

Noi abbiamo dianzi chiarito le due forme dell’ingiustizia, aggiungendovi le cause dell’una e dell’altra; e prima ancora avevamo definito la vera essenza della giustizia; sicché ora potremo facilmente determinare quali siano i nostri particolari doveri nelle singole circostanze, se non ci farà velo il soverchio amor di noi stessi: perché è ben difficile prendersi a cuore gli interessi altrui. Ha un bel dire il Cremete di Terenzio: “Sono uomo: non c’è nulla di umano che non mi riguardi”; ma tuttavia, poiché ci toccano ben più i sensi e il cuore e le fortune e le sfortune nostre che non quelle degli altri (queste noi le vediamo, per così dire, a gran distanza), diverso è il giudizio che facciamo di quelli e di noi. Savio perciò è il consiglio di chi ci ammonisce di non far cosa alcuna della cui giustizia o ingiustizia siamo in dubbio. La giustizia risplende di un suo proprio splendore, il solo dubbio implica sempre un pensiero d’ingiustizia”.

“Praetermittendae autem defensionis officii plures solent esse causae. Nam aut inimicitias aut labore aut sumptus suscipere nolunt aut etiam neglegentia, pigritia, inertia aut suis studiis quibusdam occupationibusve sic impediuntur, ut eos, quos tutari debeant, desertos esse patiantur.

Itaque videndum est, ne non satis sit id, quod apud Platonem est in philosophos dictum, quod in veri investigatione versentur quodque ea, quae plerique vehementer expetant, de quibus inter se digladiari soleant, contemnant et pro nihilo putent, propterea iustos esse. Nam alterum [iustitiae genus] assequuntur, in inferenda ne cui noceant iniuria, in alterum incidunt: discendi enim studio impediti, quos tueri debent, deserunt. Itaque eos ne ad rem publicam quidem accessuros putant nisi coactos. Aequius autem erat id voluntate fieri; nam hoc ipsum ita iustum est, quod recte fit, si est voluntarium.

Sunt etiam, qui aut studio rei familiaris tuendae aut odio quodam hominum suum se negotium agere dicant nec facere cuiquam videantur iniuriam. Qui altero genere iniustitiae vacant, in alterum incurrunt; deserunt enim vitae societatem, quia nihil conferunt in eam studii, nihil operae, nihil facultatum.

Quando igitur duobus generibus iniustitiae propositis adiunximus causas utriusque generis easque res ante constituimus, quibus iustitia contineretur, facile quod cuisque temporis officium sit poterimus, nisi nosmet ipsos valde amabimus, iudicare.

Est enim difficilis cura rerum alienarum. Quamquam Terentianus ille Chremes ” humani nihil a se alienum putat”; sed tamen, quia magis ea percipimus atque sentimus, quae nobis ipsis aut prospera aut adversa eveniunt, quam illa, quae ceteris, quae quasi longo intervallo interiecto videmus, aliter de illis ac de nobis iudicamus. Quocirca bene praecipiunt, qui vetant quicquam agere, quod dubites aequum sit an iniquum. Aequitas enim luces ipsa per se, dubitatio cogitationem significat iniuriae”.