La terza sezione della Corte di cassazione, con la pronuncia numero1361 del 23 gennaio 2014, è intervenuta a stravolgere il radicato orientamento della nostra giurisprudenza che negava risarcibilità autonoma del danno da morte, così come sostenuto dalle Sezioni Unite del 2008.
Il danno da perdita della vita ha una storia lunga e travagliata.
In un primo momento, si negò l’autonoma risarcibilità, poiché, a seguito del decesso, non esisteva più il titolare del bene vita (potendo i congiunti lamentare il proprio danno morale sofferto a causa della perdita).
In un secondo momento, si riconobbe il diritto al risarcimento del danno biologico e di quello non patrimoniale di chi attende lucidamente e consapevolmente l’estinzione della propria vita, il quale entra nel patrimonio del morente e si trasmette ai congiunti iure hereditatis, a prescindere dal lasso di tempo intercorrente tra le lesioni mortali e la morte.
A ciò corrispondeva la negazione del risarcimento del danno biologico da perdita della vita in caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, in un momento, cioè, in cui mancava la consapevolezza in capo al morente della sua sorte.
La sentenza in commento riconosce senza limiti il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo e oggetto di un diritto assoluto e inviolabile, protetto al più alto livello. Esso, pertanto, è ontologicamente distinto dal danno biologico e da quello morale terminale (meglio noto come catastrofico), e rileva nella sua oggettività di perdita del bene principale dell’uomo, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia e quindi anche dal caso di morte immediata.
La morte, per i giudici supremi, ha quale conseguenza «la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; (…) non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze».
La vittima, quindi, acquisisce il diritto al risarcimento istantaneamente, al momento della lesione mortale, e il relativo diritto è trasmissibile agli eredi iure hereditatis.